Pandemia un anno dopo per tirare le somme di dodici mesi surreali e apocalittici. Quando Codogno era la Wuhan italiana e i camion dell’Esercito trasportavano le bare. Cosa abbiamo imparato? E’ presto per dirlo, ma le decine di milioni di mascherine usa e getta abbandonate in giro ci dicono che la strada della consapevolezza è ancora lontana
Pandemia un anno dopo, non è il titolo di un film, ma il resoconto della tragedia di dimensioni bibliche che ha fermato il pianeta. Ripercorriamo un po’ le tappe dell’incredibile storia contemporanea vissuta sulla nostra terra. Il 21 febbraio 2020, poco dopo la mezzanotte, viene ufficializzato il primo caso ‘autoctono’ di infezione al Sars-Cov-2: è Mattia Maestri, 38 anni, ricoverato all’ospedale di Codogno. Dalla politica e dalla comunità scientifica fioccano rassicurazioni: “I casi sono isolati, è tutto sotto controllo.”
Pandemia un anno dopo: quando Codogno era la Wuhan italiana
Alle 13 del 21 febbraio i contagiati erano 6, tutti nel Logidiano. Due ore più tardi a Codogno, 15mila abitanti, il sindaco decide di chiudere bar, scuole e locali.
In meno di una settimana sono stati accertati contagi in nove regioni. L’emergenza riguarda tutti e l’Italia è impreparata. Non ci sono mascherine né un Piano pandemico aggiornato. Alle carenze strutturali, si aggiungono gli errori e le sottovalutazioni. Si scoprirà poi che il virus circolava da mesi in Europa e in Italia e che tutto era già sfuggito di mano.
8 marzo 2020: l’incubo
Bisogna attendere l’8 marzo per una mossa, con un indice di trasmissibilità del virus stimato tra il 2 e il 3.
Lockdown, stop ai funerali
Lombardia e parte di Veneto, Piemonte ed Emilia Romagna diventano “zona arancione”. Nel giro di 48 ore le misure vengono estese a tutta l’Italia e poi inasprite l’11 marzo quando il governo annuncia il lockdown. Arriva anche lo stop ai funerali: i contagiati soffrono da soli negli ospedali, muoiono da soli e vanno via da soli, senza un ultimo saluto.
E ogni sera, alle 18, la conferenza di Conte
Il virus galoppa, le terapie intensive si intasano, le giornate sono scandite dalla conferenza stampa della Protezione Civile alle 18 per il bollettino quotidiano. Il Paese si ferma. Si può uscire esclusivamente con un’autocertificazione per motivi di lavoro, di salute o per fare la spesa. Vengono sospesi eventi pubblici di ogni tipo, chiudono bar, ristoranti e negozi. Le strade vuote sono riempite solo dal suono angosciante delle sirene.
Ambulanze a sirene spente
Nel Bergamasco le ambulanze riceveranno l’ordine di viaggiare nei centri urbani con le sirene spente, il frastuono continuo aveva creato un clima surreale. Le misure diventano ancora più restrittive il 22 marzo, quando il governo ferma totalmente la circolazione tra comuni: ognuno resta dov’è, anche se vive altrove. E per provare ad arginare il contagio viene portato al minimo anche il motore produttivo del Paese. Il 28 marzo è il giorno più nero: i camion dell’Esercito trasportano una settantina di salme fuori regione per cremarle. Poi la lenta ripresa, l’abbaglio estivo, il menefreghismo, l’innalzamento dei contagi e nuovi, moltissimi morti.
Icone della tragedia
Sono molte le immagini iconiche di quest’anno di pandemia globale. Le bare di Bergamo, il Papa da solo sotto la pioggia in una piazza San Pietro deserta durante la celebrazione della Pasqua. Un mondo che da tempo aveva messo da parte le preghiere perché troppo impegnato ad inseguire il nuovo Dio denaro.
Pandemia un anno dopo: tutto è cambiato, nulla è cambiato
“La Pandemia almeno ci renderà migliori”, questo è stato il mantra per mesi. Eppure nulla è cambiato, non abbiamo smesso di deforestare e inquinare, non abbiamo cambiato le nostre cattive abitudini, anzi, abbiamo aggiungo milioni di tonnellate di mascherine ai rifiuti. Abbiamo piuttosto preferito mettere in discussione l’esistenza stessa del virus, sfidarlo. Medici e infermieri da eroi in corsia sono diventati presto dei lamentosi che non vogliono fare il loro lavoro. Abbiamo ignorato gli appelli degli esperti, dei “professoroni”.
Pandemia un anno dopo: ci siamo ancora dentro!
Ci troviamo quindi, ad un anno dalla pandemia, ad essere incapaci di raccontare quel disastroso evento ormai superato, perché ci siamo dentro esattamente come il giorno dopo la scoperta del paziente zero. Gli ospedali continuano ad essere pieni, siamo costretti a trasportare i pazienti della nostra regione con gli elicotteri altrove perché siamo stati incapaci di prepararci al peggio. Solo per fare un esempio, nel Molise, oggi al centro dell’opinione pubblica, il 95% dei morti di Covid viene dalla seconda ondata: non ce l’abbiamo fatta!
A cura di Biase D’Andrea
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