Il caro vecchio Napoleone Bonaparte, per niente francese e molto vicino alla cultura italiana, al punto che ogni domenica andava a mangiare la pasta da “mamma Letizia” e non meno teneva alla compagnia della sua vecchia balia italiana, dovrebbe finalmente essere inquadrato come rapinatore d’opere d’arte, ladro di quadri e statue, reperti archeologici, furti effettuati con sistematiche spoliazioni delle nazioni vinte che venivano deliberatamente umiliate, strappando ai luoghi di culto profanati, crocefissi che poi venivano fusi.
Basta dare un’occhiata all’opera documentata e accurata dello studioso tedesco Paul Wescher dal titolo suggestivo “I furti d’arte”. Napoleone aveva un Louvre vuoto, in cui c’era l’eco e indisturbato ha compiuto la più colossale trasmigrazione di patrimonio artistico verso quello che diventerà uno dei musei più visitati al mondo, con una pianificazione accorta, che ebbe il suo mentore nel barone Dominique Vivant Denon, consulente dell’imperatore per oltre un ventennio.
Naturalmente la maggior parte di queste opere d’arte partì dall’Italia e poche fecero ritorno.
Napoleone capì subito quale valore, in termini di prestigio, potevano avere certe opere dal valore inestimabile, e fu così diabolico nella sua mente criminale a dare a questi espropri una parvenza di legalità, escogitando il sistema di includere le opere d’arte tra le clausole dei trattati di pace e di farle rientrare addirittura tra i contributi di guerra.
Nel 1796, 110 grandi capolavori erano sulla strada di Parigi, 25 da Milano, 15 da Parma, 30 da Modena e 40 da Bologna, cui seguivano un’infinità di altri oggetti di valore. Il solo risarcimento di guerra imposto alla cattedrale di Monza fruttò solo in fusione di oggetti e vasi liturgici ben 11,300 kg d’oro e 184 kg d’argento.
Venezia venne umiliata con la rimozione del leone di bronzo, simbolo della città, che dal Medioevo dominava piazza San Marco, e dei quattro cavalli di bronzo che ornavano la facciata della basilica.
Non a caso il ritorno di Bonaparte dalla Campagna d’Italia sarebbe stato festeggiato con un solenne banchetto, con 700 invitati ospitati nella Grand Galerie du Louvre dove per l’occasione, verranno esposti per la prima volta al pubblico gran parte dei quadri fiamminghi e italiani.
Il 27 e 28 luglio 1798 i parigini poterono così assistere all’ingresso di un corteo interminabile, guidato dalle due statue colossali del Nilo e del Tevere provenienti dal Vaticano.
Naturalmente per lo studio, il riordinamento e l’esposizione provvedeva sempre il felino barone Denon, anima nera di queste razzie.
Uno dei fatti più misteriosi e controversi dei furti d’arte del piccoletto corso, fu il prelevamento sotto forma di vendita fittizia alla Francia di 344 pezzi della collezione del principe Camillo Borghese, marito della sorella Paolina. La leggenda narra del povero principe Boghese costretto a firmare sotto la minaccia di una pistola, impugnata proprio dall’imperatore. Tutte le opere furono impacchettate e spedite al Louvre molto velocemente.
Il protagonista del dopo Napoleone, nella lunga battaglia per il ritorno delle opere italiane trasportate in Francia negli anni precedenti, fu Antonio Canova, il noto scultore, forse toppo artista e poco scaltro per riuscire nell’impresa che gli si chiedeva. Incaricato dal cardinale Ettore Consalvi, segretario di Stato pontificio, il grande scultore doveva anzitutto recuperare a Parigi le cento pitture che la Francia aveva preteso con il trattato di pace stipulato a San Nicola di Tolentino nel 1796. Ne trovò 78 e spiegò alla segreteria di Stato vaticana che le altre erano finite nelle chiese, nei vescovadi o addirittura a Palazzo Reale: luoghi da cui sarebbe stato difficile toglierle senza pregiudicare i rapporti della Santa Sede con Luigi XVIII. Abbastanza efficace e provvidenziale fu però il ruolo di Metternich.
Quando il direttore del Louvre, sempre l’anima nera Vivant Denon, cominciò a sollevare obiezioni e ostacoli, il cancelliere austriaco autorizzò la rimozione dal museo dei quadri provenienti dalle collezioni pontificie e dette a Canova una scorta militare composta da truppe austro-prussiane. Non è tutto. Metternich fu altrettanto spiccio quando si trattò di recuperare opere provenienti da Venezia e dai ducati di Parma e Modena, satelliti italiani dell’Impero austriaco. Il recupero più importante fu quello dei Cavalli di San Marco
Ahimè per noi, su 506 dipinti di provenienza italiana, ben 248, ossia circa la metà, rimangono tutt’ora in Francia. Dopo lunghi indugi le opere d’arte italiane furono finalmente pronte per il rientro il 24 ottobre in un convoglio di 41 carri con 200 cavalli da tiro partiti da Parigi per Milano con una scorta di soldati tedeschi, tra le proteste dei parigini. A Milano il carico fu distribuito e proseguì per le diverse località d’origine: 16 carri si diressero verso i vecchi Stati austriaci, 12 verso Roma, otto verso Torino e così via.
Canova era un uomo d’arte e poté fare poco, nulla invece ancora oggi fanno i politici italiani, che tacciono, soprattutto per ignoranza.