La domanda che ha messo in difficoltà i filosofi di tutte le generazioni. Dal vivere bene di Platone all’accettazione di se stessi di Shopenhauer. Infinite risposte e concezioni di un’unica sensazione.
La felicità è sempre stato uno degli argomenti portanti di qualsiasi epoca e generazione. Che cos’è la felicità? È questa la domanda che ha creato, e che crea tutt’oggi, discussioni che spesso finiscono in un niente di fatto. Aprendo un vocabolario è possibile trovare la definizione di felicità: “stato d’animo di chi è sereno, non turbato da dolori o preoccupazioni e gode di questo suo stato”. Ma è davvero tutto qui? Ovviamente no, altrimenti i filosofi di tutte le epoche, compresa quella moderna, non avrebbero speso così tanto tempo a cercare di definire questa sensazione che tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo provato. La felicità, infatti, è mutevole e la sua concezione cambia con il lo scorrere delle epoche e il mutare della mentalità.
Ai tempi dei grandi filosofi greci si pensava che la felicità derivasse dal vivere in modo saggio e seguendo le virtù. Secondo Platone, uno dei più grandi pensatori della storia, si poteva raggiungere la felicità tramite uno studio che porta alla saggezza di distinguere il “vero Bene” e il “vero Bello” dai falsi valori della vita. Il filosofo sosteneva anche che, dopo aver soddisfatto il desiderio di felicità, questa svanisse se non si trovava un altro desiderio a cui aspirare. “Non potrai vivere felicemente se la tua vita non sarà saggia, bella e giusta; e la tua vita non potrà essere saggia, bella e giusta se è senza felicità” afferma Epicuro nelle Massime capitali. Queste sono dunque le basi dell’ eudemonismo greco.
Con l’avvento dell’umanesimo la felicità ha assunto un significato diverso. Con questo filone di pensiero si iniziò a ritenere che essa dipendesse dalla realizzazione dei piaceri. Locke e Leibniz usavano infatti espressioni come “estremo piacere” o anche “piacere durevole” per definirla. Kant invece era di altro parere. Il filosofo riteneva che non è possibile raggiungere la vera e propria felicità nel mondo fisico perché ognuno ne ha una personale.
Secondo Schopenhauer l’essere felici non aveva niente a che vedere con le gioie della vita. Piuttosto riteneva che una persona potesse essere davvero felice solo con il raggiungimento della pace interiore. “Vivere felici significa solo vivere il meno infelici possibile”. Secondo il pensatore bisogna staccarsi da quelle cose che turbano la mente come l’invidia e concentrarsi su ciò che già si ha “come se qualcuno ce lo stesse rubando” e accettare noi stessi per quello che siamo. Il pensiero di Nietzsche non si discosta molto da quello di Schopenhauer. Egli associava infatti la felicità al benessere, uno stato raggiungibile solo allontanando da se stessi tutte le preoccupazioni e superando gli ostacoli che si presentano lungo la strada della vita, cercando di creare un proprio modello di vita originale.
Ai nostri tempi, ogni individuo ha la sua idea di felicità e poco importa che sia originale oppure forgiato da secoli di filosofia. C’è chi vede la felicità nella realizzazione dei piaceri, chi invece la associa a quello che può possedere e anche chi più semplicemente si sente felice stando a contatto con i propri cari e gli amici. Alcuni pensano che la vera felicità non esista, altri la provano leggendo un libro, guardando un film o un fantastico tramonto. Si parla di felicità durevole e felicità temporanea, giusta e sbagliata. In conclusione, rispondere alla domanda “Che cos’è la felicità?” non è una cosa da prendere alla leggera perché esistono tante concezioni di felicità quante sono le persone che abitano, che hanno abitato e che abiteranno questo mondo. E se ponessero a voi questa domanda, cosa rispondereste?