Aveva 90 anni ed era noto al grande pubblico soprattutto per la ventennale collaborazione artistica con il musicista Franco Battiato, suggellata da brani amatissimi, primo fra tutti “La cura”. Scrisse testi anche per Patty Pravo, Celentano e Fiorella Mannoia.
Manlio Sgalambro, scrittore e poeta, canzonettista e sceneggiatore, ma soprattutto filosofo nichilista con influenze di Nietzsche e Cioran, è morto a Catania giovedì scorso, ad 89 anni, lasciandoci una eredità davvero atipica nel panorama culturale italiano, esordendo in tarda età, nel 1982, con quella che probabilmente è la sua opera più rappresentativa: “La morte del sole”, scrivendo e pubblicando poi altri volumi (alcuni dei quali tradotti in tedesco, francese e spagnolo), fra i quali “Trattato dell’empietà”, “Del pensare breve”, “Dell’indifferenza in materia di società”, “La consolazione”, “Trattato dell’età”, “De mundo pessimo” e”Variazioni e capricci morali”, l’ultimo, pubblicato nel 2013; ma soprattuto, dal 84, collaborando alla più parte dei progetti di Franco Battiato: cinque libretti d’opera e sette album musicali e la sceneggiatura di tre film: “Perduto amor”, “Musikanten” e “Niente è come sembra”; riproducendo, in questa variegata produzione, una sorta di percorso verso il grado zero dell’essenza della propria poetica, partendo da una scrittura tradizionale fino ad un viaggio antropologico alle origini e il senso dell’umano agire che evapora fino alla dissoluzione.
Spesso deriso o non preso sul serio, perché scriveva canzonette (anche per Patty Pravo, Alice, Fiorella Mannoia, Carmen Consoli, Milva e Adriano Celentano), egli resta un esempio di intellettuale coerente nei contenuti che ha reso fruibili a vari livelli e con mezzi differenti, partendo da una concezione beffarda dell’accademismo, scopritore di una nuova via doi comunicazione e trasmissione che lo aveva portato, nel 2002, ad essere il bislacco chansonnier, distaccato e senz’altro snob, interprete di un album che si intitolava “Fun Club”, con fior di musicisti e la voce strapazzata dalla vita ma assai espressiva: non solo “La mer” di Trenet o “Non dimenticar le mie parole” di D’Anzi, ma anche: “Me gustas tu, autentico colpo di genio, apostrofo sorridente e un po’ beffardo che lo avvicinò ancor più alle masse giovanili a cui più di tutte intendeva rivolgersi, convinto che da loro e solo da loro poteva partire un vero rinnovamento.
Poco capita, in questi giormni, anche Serena Dandini, che dopo successi e flop si è presa una pausa dalla tv per ricevere un invito dall’Onu e portare il suo spettacolo “Ferite a morte” a New York, ma intanto è poco considerta da noi ed è costrtetta a rinviarev l’accarezzato progetto, condiviso con van Cotroneo, di partire da questo testo per una fiction televisiva.
Il suo spettacolo lo aveva presentato a settembre, nel giardino che di una villetta d’epoca, nel cuore di Monteverde vecchio, uno dei più bei quartieri di Roma, quello di Pasolini e dei Bertolucci, con un fiume toccante di parole sul femminicidio, con, sul palco, a interpretare le vittime, quattro donne che si alternano a dare voce a queste storie, in uno spettacolo drammatico, ma giocato, a contrasto, su un linguaggio leggero e con i toni ironici e grotteschi propri della sua scrittura, resa più efficace dalla collaborazione con Maura Misiti, ricercatrice del CNR e a interpretarle Lella Costa, Orsetta De Rossi, giorgia Cardaci e Rita Pelusio.
Quanche distratta recensione e poco altro, nonostante una tournèe italiana con 50 tappe e un tour all’estero di quattro date, perrchè lo stile è piano e diretto, il tema duro e non piace parlare oggi di femminicidio in una sorta di “spoon river” rivisitato e schietto per dare voce alle troppe donne che perdono la vita per mano di un marito, un compagno, un amante, un “ex”.
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