“Di te vivrò fin che distratto ecceda / il tuo nume sul mio / già estinto significato, / fin che in altri terrori tu rigermini / in altre vanificazioni, che fanno di ogni altra parola, unitile balbettio”
Fellini, che con lui aveva collaborato per il “Casanova”, lo definiva un angelo ed insieme un intellettuale capace di scavare sino a profondità abissali. Fu nell’estate del ’76 che il poeta, su segnalazione di Nico Naldini, iniziò a collaborare al Casanova di Fellini, da lui incontrato per la prima volta nel 1970 alla presentazione del film I clowns. Nello stesso anno viene pubblicata l’opera Filò che comprende la lettera che egli scrive al regista, dove dichiara le sue aspettative, i versi per il film Casanova, quelli sul dialetto e una lunga nota, oltre a cinque disegni di Fellini e alla trascrizione delle parti in dialetto dello studioso veneziano Tiziano Rizzo. Andrea Zanzotto, figura di intellettuale apertissima e capace di spaziare liberamente nelle più diverse forme del pensiero e dell’arte, è morto a 90 anni, vissuti intensamente e festeggiati pochi giorni fa (il 10 ottobre) nella sua Pieve di Soligo. E’ stato il primo a promuovere, in senso antiframmentistico, la necessità di un progetto ampio in poesia e dunque di un’articolazione poematica, realizzata nella sua trilogia, da lui definita con sublime understatement “pseudo-trilogia”, composta dal Galateo in bosco, Fosfeni e Idioma (tra il ’78 e l’86) e fin dagli esordi, promossi tra l’altro da figure ormai storiche di primissimo piano, tra le quali Giuseppe Ungaretti, ha mostrato una intensità verticale, con luna lirica sempre caratterizzata da forti strappi interni, da vistose increspature. E mentre lo lodarono per la forma ed i temi Montale, Ungaretti e Quasimodo, il pubblico dei lettori di poesia (nel suo caso quasi una setta di fedelissimi) lo ha sempre percepito, oltre che come un autore che rivoluzionava la poesia, come un maestro di coscienza. In quanto tale, moralmente indispensabile. Accettando, e anzi invocando da lui, qualche lampo di luce sulla crisi che il mondo attraversa. Dando ragione a Paul Celan, quando diceva che “dice il vero chi parla oscuro”, Zanzotto ha sì usato anche il dialetto, con contaminazioni varie ed acute, ma soprattutto è stato Autore dal linguaggio colto: agli inizi un italiano classico e lucente, che è via via lievitato in un’ operazione iperletteraria in cui si filtravano insieme dialetto ed echi di francese, tedesco, ebraico, con inserti di slogan fumettistici e pubblicitari e persino graffi incisi sul foglio. Dal messaggio del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, agli addii degli studiosi di ogni parte del mondo, al dolore di tanti sconosciuti che sono stati toccati da un suo verso o da una sua profezia civile, tutti lo rimpiangono e lo vorrebbero ancora presente, capace di dare risposte alle proprie incertezze ed inquiete coscienze. Si, perché, a novant’anni conservava intatta la sua lucida intelligenza, come ci dicono i versi della’ultima raccolta, pubblicata poche settimane fa, intitolata Il vero tema (Biblioteca Nazionale Marciana/Cento amici del libro), con versi ancora anticipatori e profetici, come: “Non c’è bruscolo di tempo / né di spazio / che non meriti per sé infiniti poemi / che già in sé non li sia”. Zanzotto è sempre rimasto al di qua o al di là, mai dove la parola cade nel consenso dell’ovvio, con una poesia che è, nel complesso, brusìo del petèl, filigrana di scrittura e primaria vocalità; e insieme patire del corpo: come quel “gruppo di martiri a cui venne tagliata la lingua perché non volevano adorare l’imperatore, ma persistendo nell’intenzione di elevare le loro preghiere a Dio, continuarono ad emettere ugualmente dei suoni che erano un linguaggio” (Europa melograno di lingue, 1995): supplica e afasia di una testimonianza – il martire, il poeta – che non accetta negoziato di fronte all’eternità. La sua è una poesia che torna alle origini, che rimanda al greco del Cratilo di Platone, che è ricerca di verità, nel breve soffio della vita. Lo rigoderemo con versi di fuoco, scolpiti nel bronzo: “Di te vivrò fin che distratto ecceda / il tuo nume sul mio / già estinto significato, / fin che in altri terrori tu rigermini / in altre vanificazioni”, che fanno di ogni altra parola, unitile balbettio”.
di Carlo Di Stanislao
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