Nonostante l’Italia sia in piena emergenza Coronavirus, Sergio Mattarella ricorda le 335 vittime delle Fosse Ardeatine. Evento-simbolo dell’occupazione nazista a Roma, fu una vera e propria strage. Reazione spropositata all’attentato di via Rasella, la verità venne a galla alla fine della Seconda Guerra Mondiale
Oggi, 24 marzo, è il 76esimo anniversario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, uno dei più brutali eventi avvenuti nel corso del secondo conflitto mondiale. “L’eccidio delle Ardeatine ha costituito una delle pagine più dolorose della storia recente del nostro Paese.” – ricorda il Presidente Sergio Mattarella in una nota dell’Ansa. Il 24 marzo 1944, le truppe di occupazione nazista strapparono la vita a 335 persone innocenti: civili e militari italiani, prigionieri politici, ebrei o detenuti comuni. Vera e propria esecuzione, divenne l’evento simbolo della durezza dell’occupazione tedesca di Roma. Gli stessi nazisti ammisero, in seguito, di aver avuto difficoltà nell’uccidere a sangue freddo persone innocenti, che nulla avevano a che fare con gli eventi bellici. Per molto tempo si è tentato di occultare quest’avvenimento, ma gli Italiani, e il resto del mondo, avevano bisogno di verità, per conoscere gli eventi e poter ricordare questo triste giorno e le sue vittime con l’importanza che meritano. “I valori del rispetto della vita e della solidarietà che ci sorreggono in questo periodo, segnato da una grave emergenza sanitaria, rafforzano il dovere di rendere omaggio a quei morti innocenti.” – continua Mattarella – dopo l’epilogo del Secondo Conflitto Mondiale, l’Italia ripartì unita, “La stessa unità che ci è richiesta, oggi, in un momento difficile per l’intera comunità”.
Il 23 marzo 1944, in via Rasella, un gruppo di partigiani (definiti dai nazisti comunisti-badogliani) eseguì un attentato, lanciando delle bombe, contro l’11esima compagnia del III battaglione del Reggimento Bozen (reggimento di polizia tedesco). 33 militari tedeschi persero la vita: i capi risposero con una rappresaglia. Il feldmaresciallo Kesselring, comandante delle forze tedesche in Italia, dopo essersi consultato più volte con Berlino, emanò l’ordine: “Uccidete dieci italiani per ogni tedesco. Esecuzione immediata” (la provenienza e la veridicità di queste parole verrà ribadita più volte in sede processuale dallo stesso Kesserling, si dice che Hitler avesse inizialmente fatto riferimento ad un numero maggiore di vittime per ogni soldato tedesco deceduto). Al colonnello Herbert Kappler fu assegnato l’ordine di individuare la lista dei Todeskandidaten (prigionieri che erano già stati condannati a morte o che avevano commesso reati che prevedevano tale condanna) da portare all’esecuzione. Decise di richiedere la collaborazione del questore fascista Pietro Caruso che cercò di limitare il numero delle vittime ritardando la consegna della lista richiesta, dopo che l’allora ministro degli Interni della appena nata Repubblica di Salò, Guido Buffarini Guidi, rispose alla sua richiesta di intervento dicendo: “Che posso fare? Sei costretto a darglieli. Altrimenti chissà cosa potrebbe succedere” (molti sostengono che la Repubblica di Salò fosse nata per limitare i danni che i tedeschi potevano causare alla popolazione italiana). Non essendo sufficiente il numero dei già condannati a morte, i capi tedeschi decisero di includere nell’esecuzione anche chi era ancora in attesa di giudizio, i prigionieri che avevano ottenuto pene minori, comunisti fermati per motivi politici, persone arrestate il giorno dell’attentato e 75 ebrei in attesa di essere deportati.
L’ordine di uccidere 320 persone doveva essere eseguito entro il 24 marzo del 1994. Studiato nei minimi particolari, le uccisioni erano dirette dal comandante Carl Shutz sotto il controllo del capitano Priebke, incaricato di controllare il corretto espletamento dell’ordine ed assicurarsi che si impiegasse “non più di un minuto per ogni uomo”. Nel corso dell’operazione il colonnello Kappler decise di includere tra i condannati 10 persone ebree appena arrestate ed altre 5 persone furono uccise perché “avevano visto tutto”. L’esecuzione si svolse in turnazioni e durò all’incirca tra le 4 e le 5 ore, ogni militare tedesco aveva il suo compito e doveva svolgerlo con precisione disarmante. Lo stesso Keppler ammetterà in seguito di aver avuto delle difficoltà.
I tedeschi erano decisi ad occultare tutto. Scelsero come luogo dell’esecuzione delle cave situate tra le catacombe di San Callisto e Domitilla sulla via Ardeatina in modo tale da non far vedere a nessuno le azioni disumane che stavano compiendo. Dopo il massacro fecero esplodere numerose mine per renderne più difficoltosa la scoperta. Il 25 marzo i tedeschi divulgarono un comunicato nel quale dichiaravano ciò che era accaduto e portavano gli Italiani a conoscenza dell’esecuzione dell’ordine impostogli. Tentarono di giustificare la rappresaglia dichiarandola prevista dal diritto internazionale (la Convenzione dell’Aia del 1907 proibisce la rappresaglia e la Convenzione di Ginevra del 1929 vieta gli atti di rappresaglia nei confronti dei prigionieri di guerra). Ingiustificabili sotto ogni punto di vista, i decisori di questo tragico destino per le 335 persone giustiziate pagheranno alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Kesselring fu processato e condannato a morte nel 1947 per crimini di guerra e per l’eccidio delle Fosse Ardeatine (la pena verrà commutata nel carcere a vita). Kappler fu condannato all’ergastolo nel 1948 per l’omicidio delle 15 persone che morirono per suo diretto ordine. L’ex-comandante Priebke, latitante in Argentina, fu arrestato ed estradato in Italia nel 1995, dove è stato condannato all’ergastolo.
Di Pamela Cioffi