In genere anche persone con problemi cardiaci o respiratori, in un quadro di stabilità clinica, possono tollerare quote fino a 2 mila metri. Gli aggiustamenti delle terapie vanno discussi con il medico
Il clima piacevolmente fresco, lontano dall’afa della città, il poco smog, l’assenza dello stress e del caldo tipico della spiaggia spingono sempre più persone, anche over 65, a scegliere la montagna come meta delle ferie estive. Una vacanza tra i monti può essere tra l’altro una spinta per fare attività fisica e magari mantenere la buona abitudine una volta tornati in città. Chi ha il diabete deve ricordare che il maggior movimento riduce la glicemia, diminuendo la necessità di insulina e di farmaci ipoglicemizzanti. «Succede spesso però che chi ha patologie di tipo cardiologico o respiratorio tenda a minimizzare le sue condizioni con il medico di famiglia per paura di sentirsi dire di non partire» commenta Luigi Festi, presidente della Commissione medica del Cai (Club Alpino Italiano). Non è l’atteggiamento giusto. «La montagna non è off limits neppure per pazienti cardiologici — aggiunge Gianfranco Parati, professore di Medicina Cardiovascolare all’Università Milano-Bicocca e Direttore Scientifico dell’Istituto Auxologico Italiano di Milano — ma bisogna andarci preparati, sapendo che il sistema cardiovascolare ne può risentire, affrontando la situazione con prudenza, eventualmente aggiustando la terapia dopo aver sentito il parere del medico. Ogni caso è a sé».
Alta quota
Per alta quota si intende un’altitudine superiore ai 2500 metri. «In genere anche pazienti con problemi cardiaci o respiratori, in un quadro di stabilità clinica, tollerano l’altitudine fino a 2 mila metri —spiega Parati —. Oltre i duemila metri , ma per chi è anziano ciò vale già sopra i 1500-1600 metri, l’organismo può faticare un po’ ad adattarsi alla minor quantità di ossigeno: malessere, difficoltà a dormire, mancanza di fiato per piccoli sforzi, mal di testa pressione alta sono i segni tipici del disagio. Possibili complicanze dipendono dal proprio stato clinico e a volte da alterazioni del nostro apparato cardiovascolare che ancora non si sono manifestate con sintomi. Salire in quota è infatti un po’ come fare un test da sforzo che può rendere evidente dei problemi ancora nascosti a riposo».
La reazione dell’organismo
In alta quota la capacità di esercizio si riduce perché l’ossigeno è più rarefatto e quindi meno disponibile. L’organismo mette in atto sistemi di adattamento per rispondere alla diminuita pressione di ossigeno nell’aria: il cuore accelera i battiti per pompare più sangue ai tessuti, la pressione sanguigna aumenta e il respiro si fa più veloce per incamerare più ossigeno, eliminando contemporaneamente più anidride carbonica. Di notte cresce il numero di apnee centrali (il cosiddetto respiro periodico) e si respira peggio. Chi è giovane e sano «compensa» meglio queste reazioni rispetto a chi non è più giovanissimo e ha già la pressione un po’ alta. «Se una persona è ipertesa e giovane – precisa Parati – non ci sono particolari problemi e si può eventualmente aggiustare la terapia. Se si è avanti con gli anni e si soffre già di ipertensione da tempo, ci possono già essere danni agli organi bersaglio dell’ipertensione, come cuore e cervello, e in questi casi gli sbalzi di pressione indotti dalla quota possono aumentare il rischio di un Tia, un attacco ischemico cerebrale e diventa importante ritoccare la terapia su consiglio medico. Se però la pressione è troppo alta e non è ben controllata, e nella storia personale ci sono già eventi cardiovascolari, è meglio non salire sopra i 2000 metri». In quota entra in gioco anche il fattore tempo, come chiarisce Luigi Festi, che è anche chirurgo presso l’Ospedale di Varese, ideatore e coordinatore del Master in Mountain Emergency Medicine: «Se una persona sale con la funivia sopra i 3 mila metri è chiaro che l’organismo soffrirà di mancanza d’ossigeno e metterà in atto una serie di meccanismi compensatori fisiologici. Se ci si trattiene a queste altitudini per due o tre ore, il tempo di scattare qualche foto e consumare un pasto veloce, non succederà nulla. Il vero mal di montagna, che ha diverse gradazioni di gravità, subentra dopo sei-otto ore di permanenza in alta quota, ad esempio se si decide di pernottare senza un’adeguato acclimatamento in un rifugio sul Monte Bianco o sul Monte Rosa, sopra i 3 mila metri». Possono subentrare sintomi come mal di testa, insonnia, nausea, vomito, disturbi respiratori, dispnea, letargia, fino a conseguenze più estreme come edema cerebrale o, più raramente, polmonare. Discorso a parte meritano i bambini.«I più piccoli, quelli in età prescolare — avverte Luigi Festi — non andrebbero portati sopra i 3 mila metri in funivia perché lo stato di ipossia può effettivamente provocare un edema cerebrale dal momento che la loro scatola cranica è ancora piccola e in formazione. Inoltre non riescono a esprimere la loro sofferenza, al limite piangono, ma il motivo resterà sconosciuto».
di Andrea De Marco