I piccoli di A.africanus venivano allattati per circa 12 mesi e anche dopo se il cibo scarseggiava. La scoperta, in parte italiana, permette di far luce sull’evoluzione delle cure parentali e forse anche sul destino di questo nostro lontano parente
Frutta, foglie, erbe, qualche radice. La dieta dei nostri antichi parenti Australopithecus africanus, vissuti in Sud Africa più di due milioni di anni fa era soprattutto questa. Ma cosa mangiassero i loro piccoli non è del tutto chiaro, così come sfuggiva, finora, come questa specie allevasse la propria prole. Secondo una ricerca pubblicata oggi su Nature le mamme di A.africanus allettavano i figli per circa un anno, in maniera simile ai parenti del genere Homo. E riprendevano a farlo dopo l’anno seLa scoperta magari il cibo scarseggiava.
La scoperta
La scoperta aggiunge un tassello in più alla comprensione sulla natura e sull’evoluzione delle cure parentali all’interno del nostro albero genealogico, ma permette anche di azzardare qualche ipotesi sulle possibili ragioni che portarono all’estinzione di questa specie. Ma andiamo con ordine. Il team di ricercatori, tra cui figura anche l’antropologo fisico Stefano Benazzi dell’Università di Bologna, è riuscito a ricostruire il comportamento delle mamme di A.africanus analizzando la distribuzione di alcuni elementi chimici nei denti fossili di questa specie. I denti, infatti, sono una risorsa preziosa per leggere nel passato, perché ne tengono traccia. “Si osservano delle linee di crescita annuali durante la mineralizzazione dei denti – racconta a Repubblica Benazzi – e alcuni degli elementi presenti in traccia nei denti sono molto legati all’alimentazione”. Di fatto è possibile leggere le diverse fasi di sviluppo di un individuo negli strati di dentina e smalto. È con analisi di questo tipo, compiute su resti di A.africanus risalenti a un periodo compreso tra 2,6 e 2,1 milioni di anni fa, che i ricercatori sono riusciti a farsi un’idea di quale fosse l’alimentazione dei loro piccoli. Secondo quanto osservato, per circa un anno le mamme allattavano la prole. Lo facevano continuamente almeno per circa 6-9 mesi, dopo di che cominciava il periodo di svezzamento con l’integrazione di cibi diversi, via via ad aumentare fino all’anno d’età. Ma i denti di A.africanus raccontano anche dell’altro: la deposizione di alcuni elementi chimici (come bario, calcio e litio) sembra variare ciclicamente. Cosa significa? L’ipotesi più plausibile, raccontano i ricercatori, è che le mamme di A.africanus tornassero ad allattare i figli nei periodi di magra, quando le risorse nell’ambiente scarseggiavano. In maniera simile a quanto osservato per gli oranghi e nei babbuini, probabilmente a causa delle fluttuazioni stagionali nell’ambiente. “Negli oranghi”, riprende Benazzi: “Questo comportamento è stato osservato fino a 8-9 anni, nelle australopitecine la ripresa dell’allattamento sembra potesse continuare fin verso i 5-6 anni”. Ma le analisi di quei denti a ben vedere potrebbero raccontare ancora di più. Il destino della specie Ci dicono per esempio che l’investimento nelle cure parentali di A.africanus era piuttosto considerevole. “I risultati delle nostre analisi suggeriscono, per la prima volta, l’esistenza in Australopithecus di un legame madre-bambino piuttosto esteso”, ha spiegato l’italiano Luca Fiorenza della Monash University, in Australia, tra gli autori del paper: “Si tratta della prima prova diretta del ruolo materno in uno dei nostri primi antenati, e contribuisce alla nostra comprensione della storia delle dinamiche familiari e dell’infanzia”. Ma non solo. Un allattamento così prolungato, in dipendenza di un ambiente variabile, potrebbe avere avuto ripercussioni importanti per il destino della specie, spiega Benazzi: “Quando la madre continua ad allattare così a lungo si abbassa la fecondità e dunque si osserva una riduzione nella prole, con un aumento degli anni che corrono tra un figlio e l’altro. E la riduzione della prole riduce anche la possibilità demografica della specie. Questo in un periodo di grandi cambiamenti climatici, come quelli di questo periodo, in cui si osserva un generale raffreddamento e aridità ciclica, potrebbe aver messo in pericolo la sopravvivenza della australopitecine, anche per la comparsa di altre specie”. In quel periodo per esempio comparirono i parantropi e il genere Homo, continua Benazzi: “Se le nuove specie risposero ai cambiamenti climatici in modi diversi, le problematiche demografiche di A.africanus potrebbero essere state un vero svantaggio per la loro sopravvivenza”. I ricercatori ora cercheranno proprio di capire come si adattarono le specie contemporanee a questi cambiamenti climatici.
di Andrea De Marco
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